Approccio
Psicoanalisi della Relazione
Il modello “Psicoanalisi della Relazione”, orientato da presupposti di conoscenza attuali, si colloca nella tradizione scientifica della Psicoanalisi. Supera il modello pulsionale freudiano ed elabora un punto di vista proprio sulla vita psichica, secondo il quale “le relazioni con gli altri costituiscono gli elementi strutturanti fondamentali per la costruzione della vita mentale” (Greenberg, Mitchell, 1983).
Alcune tra le principali tradizioni teoriche della Psicoanalisi si basano su una concezione della natura umana ben definita: l’essere umano viene considerato o come “apparato” chiuso e organizzato intorno all’assetto biologico (modello pulsionale freudiano), oppure secondo prospettive che spostano l’attenzione tutta all’esterno concependolo come vittima degli accadimenti ambientali (teorie del deficit).
Il modello relazionale, adottando come metafora di riferimento per la spiegazione e comprensione della persona la Teoria dei sistemi, recupera una visione più unitaria dell’essere umano concependolo come sistema aperto, complesso e organizzato in una struttura che tende sia al mantenimento che alla trasformazione. Volge lo sguardo, dunque, a entrambe le dimensioni su citate (interna ed esterna) di auto ed eco-organizzazione, senza negare l’incidenza dell’influenza biologica e ambientale sullo sviluppo psichico dell’individuo, ma ponendo l’accento anche sul contributo soggettivo dello stesso nella formazione delle proprie “configurazioni relazionali”.
La prospettiva teorica assunta influenza il modo di intendere la cura e porta a conseguenze sul piano metodologico nella situazione analitica.
In breve, la teorica psicoanalitica classica freudiana è caratterizzata da una visione in cui l’oggetto di studio è la mente individuale del paziente: nella stanza d’analisi vengono osservati i suoi sintomi, fantasie e conflitti interni da un analista che, mantenendo il ruolo di osservatore distaccato e neutrale, coglie e interpreta i dati emergenti compiendo un’opera di svelamento sull’altro, offrendo una verità sul paziente. L’analista in questo caso non partecipa con la sua soggettività alla costruzione del processo analitico, ogni elemento di emotività viene considerato di ostacolo al trattamento.
Il modello psicoanalitico relazionale, diversamente, si aggancia a presupposti costruttivisti e interazionisti, che abbandonano il mito di una realtà che è possibile conoscere oggettivamente, per abbracciare la concezione di una realtà la cui determinazione passa inevitabilmente attraverso la significazione del soggetto che la osserva. Il focus si sposta sulla relazione come unità di studio privilegiata e in ambito terapeutico vengono considerati molteplici aspetti: il mondo interno e la storia del paziente, il contributo dell’analista che, guidato da conoscenze teoriche e metodologiche, partecipa anche soggettivamente alla costruzione della situazione analitica, le dinamiche della specifica coppia terapeuta/paziente.
Come afferma Michele Minolli, fondatore della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione:
“il modello Psicoanalitico Relazionale si costituisce come una Psicoanalisi dell’essere umano”.
Il rapporto paziente/analista viene considerato secondo una prospettiva che restituisce soggettività, oltre che un ruolo attivo, a entrambi i partecipanti alla situazione analitica e viene sottolineata l’importanza di questa imprescindibile dimensione come strumento di lavoro. Così, in ambito terapeutico, non esiste la concezione di una relazione che si instaura tra un soggetto attivo e distaccato (analista che svela verità in modo oggettivo) e un soggetto passivo (paziente che riceve), ma piuttosto quella di soggetti che attivamente partecipano alla costruzione di quella specifica relazione, influenzandosi reciprocamente e mettendo a disposizione il loro modo d’essere e sentire la relazione.
La patologia
Secondo il modello Psicoanalisi della Relazione “la psicopatologia nelle sue infinite variazioni riflette il nostro legame inconscio nei confronti della stasi, dell’inserimento e della fedeltà verso ciò che ci è familiare” (Mitchell, 1988; Weiss, 1986) e viene riconsiderata secondo un punto di vista che guarda al bisogno di mantenimento di ciò che si conosce, alla matrice relazionale precoce e alla rigidità con la quale questa viene perseguita, limitando la flessibilità delle relazioni attuali.
La patologia, secondo tale modello, si esprime quando la strutturazione in cui si configura il soggetto si irrigidisce, ossia si fissa su una modalità esclusiva di funzionamento. Con la terminologia “modalità esclusiva di funzionamento” si fa riferimento a una soluzione storica (inconscia) adottata dal soggetto e funzionale per lui in un determinato momento, ma che si ripropone nell’arco della vita. Paradossalmente, la modalità rigida viene mantenuta dalla persona in quanto risultata funzionale, necessaria per lo stesso vivere, nonostante generi sofferenza.
In Psicoanalisi della Relazione concepire il soggetto come un sistema complesso e aperto, strutturato più o meno rigidamente a livello inconscio, ma capace di organizzarsi sia autonomamente tramite un’attività che proviene dall’interno sia in relazione all’ambiente esterno, permette di guardare alla possibilità per lo stesso di poter plasmare e ridefinire continuamente i propri significati e il proprio vivere.
Così, obiettivo della terapia in ambito relazionale diviene quello di sciogliere questa rigidità, lavorando sulla strutturazione del paziente, sui significati inconsci della relazione, sulla relazione stessa e conoscenza di sé attraverso l’altro tramite una ricostruzione di immagini, emozioni e un lavoro di mentalizzazione.
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Approfondimento storico
A partire dal lavoro di Freud c’è stato un graduale sviluppo di contributi teorici che, nel dare risalto al ruolo della soggettività dell’analista nella costruzione della situazione analitica, hanno tracciato un importante percorso di modificazione della teoria psicoanalitica delle origini. Il discorso è molto ampio, si susseguono nomi di diversi autori e molteplici concetti per cui, per chi fosse interessato ad approfondire, è necessario un rimando ad altre letture.
Freud, padre della psicoanalisi, ha formulato le sue teorie sul funzionamento psichico oltre un secolo fa. Queste lo hanno guidato nell’operare clinico ed erano naturalmente inserite in un contesto socio-culturale ben diverso dal nostro, caratterizzato da presupposti epistemici positivisti di fine ottocento. Il suo pensiero si articola a partire dalla forte base della teoria delle pulsioni. Forte perché tali pulsioni riguardano la sopravvivenza dell’individuo e della specie, esistono con l’uomo in quanto indispensabili all’autoconservazione e sono legate alle pulsioni sessuali.
Le pulsioni costituiscono per Freud la fonte motivazionale centrale della vita psichica, mentre i rapporti interpersonali sono considerati secondari, in quanto “le relazioni con gli altri sono viste come derivazioni e destini delle pulsioni stesse” (Greenberg, Mitchell, 1983). Le pulsioni, sono biologiche, funzionano in maniera autonoma, indipendente, e scaricano la propria energia su un preciso oggetto al di fuori dell’apparato per garantirne la stabilità. L’apparato di cui parla Freud è il corpo, che riceve continue stimolazioni dall’esterno e dall’interno; nella sua teoria l’innalzamento della soglia delle stimolazioni, il sovraccarico di energia, costituisce una minaccia per la stabilità del sistema e provoca dispiacere per lo stesso mentre la scarica in più porta al piacere. A tal proposito Aron Lewis, autore relazionale, scrive che: “anche il dispiacere psicologico in questo modo viene associato ad un dispiacere meccanico” (Aron, 1996).
Secondo tale impostazione, quindi, l’essere umano può raggiungere l’altro solo attraverso i mezzi che ha a disposizione e di cui è dotato biologicamente: il sistema nervoso, la parola e il ragionamento, non vengono invece prese in considerazione dimensioni più profonde quali sentimenti e affetti. Viene da sé che nessun individuo nasce privo di tali pulsioni e che l’ottica freudiana, predeterminata, si fonda su una visione meccanicistica: prima dell’istinto, delle pulsioni, non può esserci nulla, nessuna motivazione, nessuna significazione o aspettativa altra ma solo un sistema che funziona per mantenere la propria omeostasi.
Nel modello pulsionale freudiano, dunque, l’oggetto di studio diviene il sistema e la mente individuale monadica che si dispiega attraverso pressioni endogene e trova soluzione nell’ambiente.
Le teorie relazionali, invece, “considerano la mente come fondamentalmente diadica e interattiva; soprattutto, la mente ricerca il contatto, il rapporto con le altre menti” (Mitchell, 1988).
Accompagnata da questi presupposti, la tecnica psicoanalitica tradizionale freudiana prescrive all’analista di conservare nei confronti del paziente una posizione di obiettività, distacco e neutralità, in quanto considera la soggettività come un ostacolo al trattamento, l’interazione come antitetica all’attività interpretativa e al raggiungimento dell’insight. Secondo questa prospettiva nella situazione analitica non c’è incontro con l’analista tranne che “come schermo nel quale il paziente incontra sè stesso” (Mitchell, 1988); l’analista funziona come uno schermo bianco in grado di riflettere quanto deriva dal paziente, così nella pratica i sentimenti e le reazioni dello stesso vengono interdetti ed il linguaggio bloccato.
Diversamente, secondo l’orientamento psicoanalitico relazionale nella relazione, quindi nella vita, non si può non comportarsi ed il linguaggio è iscritto in essa. Viene contemplata l’esistenza di una dimensione esplicita e implicita dell’essere, di conseguenza nell’ambito del rapporto terapeutico paziente-analista, inteso come diadico e bipersonale, non esiste la possibilità di non influenzarsi.
Il modello relazionale non rinnega l’immenso lavoro e genialità di Freud, ma ne riconosce le grandi intuizioni contestualizzando il suo operato. Nonostante l’impostazione scientista e meccanicistica, Freud fa riferimento in alcuni suoi scritti alla possibilità della “mentalizzazione” quando parla del trattenimento della pulsione e dello sviluppo del desiderio: questo può rimandare alla possibilità dello sviluppo di un processo di attese, dell’esistenza di aspetti motivazionali propri di un soggetto che non è solo pulsione. Inoltre Freud ha la grande intuizione sul senso del sintomo: il sintomo diviene un segnale che permette al corpo malato di comunicare qualcosa.
Altri psicoanalisti già negli anni ’20 (S. Ferenczi, O. Rank) iniziarono a compiere una revisione sulla tecnica psicoanalitica ortodossa, introducendo una visione che si concentrava di più su elementi terapeutici affettivi ed esperienziali. Così, andando oltre il concetto di mantenimento di neutralità e anonimità dell’analista, si iniziò ad esaminare il ruolo della soggettività dello stesso quale aspetto fondamentale per entrare in contatto con l’esperienza affettiva del paziente, dando importanza alla relazione terapeutica come strumento di cambiamento. “Ferenczi e Rank ritenevano che fosse la relazione affettiva tra analista e paziente a permettere il dispiegarsi di (…) nuovi vissuti e che questo ‘vivere di nuovo’ ”, riferito al rivivere insieme nella dimensione della relazione terapeutica le prime relazioni del paziente, “plasmasse ulteriormente il legame affettivo” (Aron, 1966).
Secondo il modello relazionale la relazione terapeutica trova dunque la sua efficacia se l’analista, supportato dalle conoscenze di cui dispone, non viene a porsi come semplice osservatore nell’ambito della relazione e, senza negare la presenza di Sé e di un proprio mondo affettivo, utilizza questa risorsa, o meglio modo d’essere, per sintonizzarsi con la dimensione profonda del paziente, al fine di dare avvio a un processo di cocostruzione di nuovi significati e prospettive.
Un avvicinamento all’aspetto relazionale in ambito psicoanalitico si ebbe anche grazie al contributo di Melanie Klein, psicoanalista austriaca, che iniziò a interessarsi all’applicazione psicoanalitica in ambito infantile introducendo per la prima volta, nel 1925, l’espressione “object relations” (relazioni oggettuali). La Klein utilizza i termini freudiani di oggetto e pulsione attribuendogli nuovi significati: “Per Freud, la meta della pulsione era la scarica; l’oggetto era il mezzo, scoperto accidentalmente, verso quel fine. La Klein riteneva che gli oggetti facessero parte dell’esperienza stessa della pulsione (…) la pulsione libidica ad amare e proteggere contiene, al suo interno, l’immagine di un oggetto amorevole, da amare; la pulsione aggressiva a odiare e distruggere contiene, al suo interno, l’immagine di un oggetto da odiare e capace di odio” (Mitchell, Black, 1996). L’attenzione in campo psicoanalitico inizia dunque a spostarsi dal concetto di pulsione come scarica su un oggetto-meta a quello di relazione tra oggetti interni scissi (fantasie, immagini) e oggetti esterni.
W. R. D. Fairbairn, altro teorico delle relazioni oggettuali, pose ancor più l’accento sull’importanza della relazione, iniziando a concepire il mondo interno del bambino, quindi le fantasie e immagini che strutturano la sua mente non come date a priori, innate, ma come emergenti dalle esperienze relazionali avute con le figure significative. Fairbairn e M. Klein segnano dunque un importante passaggio dalla strutturazione pulsionale a quella relazionale tra oggetti. Allo stesso modo altri studiosi quali Winnicott, che parla di un bambino immerso da subito nella relazione, Sullivan con l’approccio interpersonale e Kohut con la Psicologia del Sé, man mano riescono a dare nuove definizioni al concetto di pulsione e a distaccarsi dall’impostazione teorica classica che aveva attribuito un’intoccabile centralità alla tensione verso e alle limitazioni imposte dal sociale. Bisogna inoltre tener conto di tutta una serie di influenze culturali e sociali che hanno contribuito a relativizzare i presupposti epistemici positivistici di fine 800: il pensiero femminista e numerose altre concettualizzazioni di tipo postmoderno, costruttivista e prospettivista che in qualche modo hanno una radice comune, una critica verso l’oggettivizzazione di una realtà che invece viene ad assumere un senso particolare solo attraverso una nostra particolare lettura.
Intorno agli anni ’30, come accennato, in America venne a delinearsi un ulteriore approccio definito interpersonalista da alcuni studiosi (Sullivan, Thompson, Levenson) che guardavano al mentale come a qualcosa di definito dalle relazioni interpersonali. Le relazioni sociali vennero ad assumere così un ruolo di primo piano nella creazione di un disturbo che si concretizza solo nell’interpersonale reale o fantasticato (Sullivan, 1931). Secondo tale prospettiva le relazioni sociali vengono a costituirsi come determinanti biologiche del funzionamento mentale dell’individuo, al posto di una dimensione pulsionale, che pur continuando a esercitare la sua influenza, assume un ruolo secondario e di aggiunta rispetto ad aspetti motivazionali umani preesistenti e definiti socialmente. Sullivan in particolare si sofferma sulla ricerca della relazione come caratteristica umana fondamentale, riferendosi a un ambiente fatto di interazioni e realizzazione collettiva determinata culturalmente: “Tutti gli individui vivono in continua comunità con il loro ambiente necessario” (Sullivan, 1953). Egli respinge il modello freudiano di sviluppo libidico e parla di una sessualità che rappresenta solo un aspetto dello sviluppo adolescienziale, che viene invece continuamente plasmato dalle capacità relazionali e dalle esperienze interpersonali in corso.
Seppur utilizzando terminologie e metodologie diverse, i teorici delle relazioni oggettuali e gli studiosi delle relazioni interpersonali hanno colto nella relazione un punto nodale per la comprensione dello sviluppo psichico.
A partire dagli anni ’70 si sviluppò negli Stati Uniti grazie a Kohut una nuova scuola psicoanalitica, “la psicologia del Sé”. Vennero così elaborate diverse ipotesi in ambito clinico partendo dalla visione di un Sé che si rapporta a un oggetto Sé. Kohut si dedicò in particolare allo studio dei disturbi narcisistici ipotizzando che la psicopatologia derivasse da un profondo deficit affettivo dovuto all’instaurarsi di relazioni con figure genitoriali non capaci di rispondere in maniera empaticamente adeguata ai bisogni narcisistici del bambino. Nella concezione di disturbo viene implicato il consolidamento di un Sé grandioso arcaico e dell’imago parentale idealizzata, che non riescono ad integrarsi in strutture successive dando origine a distorsioni nella percezione che l’individuo ha di sè e circa i suoi rapporti interpersonali. Si inizia dunque a prestare maggiore attenzione in ambito clinico ai fallimenti empatici in analisi e al contributo dell’analista al transfert, nonostante l’impostazione kohuttiana rimanga ancorata a una visione psicoanalitica classica. L’analista infatti mantiene un ruolo particolare nell’ambito della relazione terapeutica: ha il compito di sintonizzarsi empaticamente in quanto oggetto-sé di cui il paziente ha bisogno, di dare risposte adeguate e fare interpretazioni il più possibile “corrette”.
Non si fa riferimento quindi alla soggettività del paziente e a quella dell’analista come elementi importanti al fine dell’evoluzione del processo terapeutico come cocostruzione di senso: il paziente ha una personalità che si è strutturata prima dell’analisi, a base innata, stabile e la sua purezza non deve essere influenzata dal lavoro dell’analista che si trova a svolgere essenzialmente un’opera di svelamento. D’altro canto la personalità dell’analista ha in sé la possibilità di mutamento, adattamento empatico e “magicamente” neutrale. In questo caso “La verità viene scoperta e non creata nella situazione psicoanalitica” (Aron, 1966, p.64). Così per molti teorici della psiche la psicologia del Sé rimane una psicologia monopersonale seppur venga sottolineato l’aspetto della sintonizzazione empatica con il paziente.
Mitchell, considerato il più importante diffusore dell’approccio relazionale in America, riesce ad integrare nelle sue teorizzazioni aspetti della psicologia del Sé, ponendo al centro di esse le relazioni Sé-altro, e a legare la teoria interpersonale di Sullivan agli approcci britannici delle relazioni oggettuali reinterpretandole come relazionali.
Compie, in breve, un’armonizzazione delle diverse teorie:
• ridimensionando il potere attribuito alle pulsioni in ambito psicoanalitico;
• definendo il modello relazionale come “una prospettiva alternativa che considera le relazioni con gli altri, e non le pulsioni, l’elemento fondamentale della vita mentale”;
• discostandosi dalla visione psicodinamica di deficit relazionale, che finisce con il considerare la persona come vittima passiva del suo trauma infantile;
• proponendo un modello di conflitto relazionale che ridà al soggetto un ruolo attivo nell’ambito della “negoziazione” tra configurazioni relazionali.
Il focus dell’approccio relazionale sta nella comprensione della natura interpersonale della soggettività individuale: “La realtà psichica è una matrice relazionale che racchiude entrambi i domini, quello intrapsichico e quello interpersonale” (Mitchell, 1988).
Le numerose ricerche inerenti lo sviluppo della mente condotte dal movimento dell’Infant Research, inoltre, hanno avuto un grande peso nell’ambito di una revisione della teoria e della tecnica psicoanalitica classica. Bowlby, grazie all’elaborazione della teoria dell’attaccamento, riattribuì notevole importanza al ruolo di attività giocato da entrambi i soggetti nell’ambito della relazione madre-bambino e mosse una critica alla tradizionale teoria dell’oralità come spinta pulsionale e funzionale a una riduzione di tensione. Le sue ricerche, infatti, hanno messo in luce sia un’effettiva diminuzione della tensione nell’ambito della relazione sia un aumento della stessa.
Ci ricorda inoltre Carlo Rodini come Spitz “rese noto che i bambini allevati nei brefotrofi, pur essendo nutriti, si lasciavano morire a causa del digiuno affettivo (…)” (Rodini, 2004, Ricerca Psicoanalitica). Dunque, la visione secondo cui il bambino, spinto esclusivamente dalle pulsioni di cui è dotato biologicamente, è una tabula rasa passiva sulla quale è esclusivamente l’altro a giocare un ruolo di impressione, viene scansata a favore di un’ipotesi, comprovata da studi, di soggetto che sa dare avvio a un processo di autoregolazione e auto-organizzazione, grazie a un rapporto profondo fatto di affetto e sentimenti con le figure di riferimento, di interscambio, di relazione e cocostruzione di significati. Da qui l’utilizzo del termine “sé agente”, che viene a delineare l’esserci di un’attività endogena primaria in grado di coordinarsi di per sé e in relazione a quella materna. Parliamo dell’affermazione di un primo modello interpretativo proposto da Sanders, sistemico-diadico di relazione interattiva madre-bambino, secondo cui l’interazione porta a una continua trasformazione dei sistemi e vede entrambe le parti coinvolte come soggetti attivi in grado sia di autoregolarsi sia di regolarsi interattivamente nell’organizzazione dell’esperienza.
Il paradigma relazionale ha preso forma grazie all’integrazione di tutti questi pensieri: le teorie degli studiosi britannici delle relazioni oggettuali, la psicoanalisi interpersonalista americana, la scuola della psicologia del Sé di Kohut e gli intersoggettivisti (Storolow etc.), oltre che dallo sviluppo di tutta una serie di ricerche stimolate dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby. Tutte teorie sviluppatesi come reazioni ad un modello che, per mantenersi su un piano di rigore scientifico, ha finito con il mettere da parte l’oggetto d’indagine principale: il soggetto.
BIBLIOGRAFIA
Aron L. (1996) Menti che si incontrano Trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
Greenberg J., Mitchell J. (1983) Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica Trad. it., Il Mulino, Bologna, 1986.
Hoffman I. Z. (2000) Ritualità e spontaneità nel processo psicoanalitico. Articolo tratto da Ricerca Psicoanalitica – Rivista della Relazione in Psicoanalisi.
Kaes R. (2004) Discussione e riflessioni sulle relazioni. Articolo tratto da Ricerca Psicoanalitica – Rivista della Relazione in Psicoanalisi.
Mitchell S. A. (1988) Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi. Per un modello integrato Trad. it., Bollati Borighieri, Torino, 1993.
Mitchell S. A., Black M. J. (1995) L’esperienza della psicoanalisi. Bollati Borighieri, Torino, 1996.
Rodini C. (2004) Infant Research e nuove prospettive su teoria e tecnica della psicoterapia e della psicoanalisi. Articolo tratto da Ricerca Psicoanalitica – Rivista della Relazione in Psicoanalisi.